Il ciclo della violenza: ecco perchè è difficile interrompere una relazione violenta

La violenza intrafamiliare ha origini antiche, è un problema complesso e universale poiché si presenta in tutte le culture ed è trasversale perché coinvolge ogni classe sociale, ogni livello di reddito e di istruzione. E’un fenomeno che attraversa più che mai la nostra vita sociale e familiare, la forma più diffusa di violazione dei diritti umani e la più complessa da affrontare per svariati motivi.

Essa infatti comprende molteplici forme di abuso protratte nel tempo all’interno di quello che dovrebbe rappresentare il luogo per eccellenza di amore, protezione, accudimento, riconoscimento, base sicura, centro di relazioni affettive, di intimità, sostegno e che invece genera disorientamento e confusione.

Più specificatamente, si intende per violenza intrafamiliare “ogni forma di violenza fisica,psicologica, sessuale od economica e riguarda sia soggetti che hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, sia soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo” (WHO, 1996, citato da Segantini – Cigalotti, 2013).

Negli ultimi anni la questione della violenza sulle donne è emersa sempre più, riconosciuta come problema sociale riguardante l’intera collettività, non più confinato solamente all’interno della dimensione privata o familiare. Inizialmente fu il movimento femminista che, nei primi anni Settanta, fece emergere la problematica sociale della violenza strutturale. L’attenzione alla violenza di genere è cresciuta poi sempre di più, portando nel tempo alla nascita di Associazioni e di Centri Antiviolenza al fine di supportare percorsi di uscita dalla violenza e di permettere un graduale  recupero dell’autonomia della donna.

Ancora oggi, purtroppo, esistono radicate convinzioni, basate su modelli socio-educativi e relazionali trasmessi da una generazione all’altra, che vedono la donna subordinata all’uomo e pertanto, come un soggetto dipendente nel rapporto affettivo di coppia. Esistono infatti fattori culturali e psicologici che possono spingere a giustificare il maltrattante, a tollerare gli episodi di violenza, rendendo difficile alla vittima persino realizzare ciò che sta vivendo. La decisione di interrompere il rapporto con il partner violento è quindi spesso un processo lungo e difficoltoso.

Secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2002), è possibile individuare dei fattori di rischio che predispongono il partner a esercitare violenza nei confronti della donna e quest’ultima a divenire oggetto di violenze da parte della figura maschile in età adulta.

In primo luogo, l’aver sperimentato personalmente o assistito alla messa in atto di violenze in ambito familiare durante il periodo infantile, ma anche l’assunzione costante o l’abuso di alcol e la presenza di disturbi emotivi e di personalità. Nel dettaglio si tratterebbe di modelli comportamentali appresi che condizionano l’immagine interna di sè e di sè con l’altro.

Se la cultura in cui siamo cresciuti/e è stata caratterizzata dalla totale obbedienza agli adulti, all’inflessibilità totale, umiliazione totale, subordinazione totale, annullamento delle capacità di avere un’autonomia affettiva, emotiva e decisionale, l’unica chance di sopravvivenza è stata quella di adeguarsi totalmente al modello ricevuto, ed è così che si perpetua la violenza.” – Alice Miller

Sembra chiara dunque una trasmissione intergenerazionale dei comportamenti violenti che trovanobase nelle relazioni primarie dell’individuo, esercitando una grande influenza su svariati aspetti del suo sviluppo, condizionando la sua capacità di regolazione delle emozioni, le sue aspettative relativamente al mondo esterno, le sue azioni e comportamenti, oltre alle sue idee sulle relazioni interpersonali in genere.

Oltre ai fattori individuali, sicuramente la mancanza di una rete sociale e familiare a cui fare riferimento per richiedere sostegno, aiuto emotivo e materiale determina nella donna invischiata in una relazione ambivalente e di totale dipendenza un senso di impotenza che le impedisce di mettere fine alla relazione maltrattante.

E’ impressionante il numero di donne con bambini, che pur in presenza di continue violenze non denuncia. E’ pur vero che simili eventi, specie se in atto da un lungo periodo, determinano in chi ne è vittima un’alterata percezione di sé, delle proprie reali risorse, un senso di fallimento e di isolamento, un’incapacità di immaginare un’autonomia economica o psicologica dal partner e non bisogna dimenticare che per alcune quella relazione è ancora importante, per altre l’ammissione di una sconfitta è impossibile, per altre ancora l’unione della famiglia è un valore da salvaguardare ad ogni costo. Solo per poche la consapevolezza di correre un pericolo è un motivo sufficiente per fuggire. Se tanti sono i casi che vengono archiviati per mancanza di prove, altrettanto elevato è il numero di denunce che vengono ritirate dalle donne stesse che continuano, pertanto, la relazione con il proprio partner violento.

Il silenzio, obbligato o scelto, sugli abusi subiti o assistiti, caratterizza molte relazioni familiari continuando a rendere la violenza domestica un evento sommerso. In questo senso, forse, una difficoltà da superare è quella di accogliere all’interno del nostro sistema di valutazione il pensiero che la violenza domestica ci possa essere.

La violenza chiude gli occhi, spegne la dignità e uccide. La paura, la vergogna, il senso di colpa non permettono di intravedere l’uscita di questo labirinto difficile da affrontare e che sembra non possa trasformarsi in un percorso diverso. Eppure sono numerosi ormai gli interventi attivati per contrastare la violenza sulle donne, che mirano ad integrare le azioni realizzate dai singoli Enti ed Organismi pubblici e privati con lo scopo di intercettare le situazioni di violenza, offrire risposte adeguate alle vittime, contrastare gli aggressori e attuare politiche di prevenzione attraverso azioni educative e di sensibilizzazione.

Ma allora, perchè rimane complicato uscire da una relazione violenta?

Da fuori il quadro sembra chiaro, se una persona viene maltrattata all’interno di una relazione, dovrebbe fuggire via più velocemente che può, chiedere aiuto, denunciare il maltrattante. Ma la maggior parte delle violenze avviene in contesti familiari e molto spesso chi minaccia, picchia o
abusa è il partner (o qualcuno che lo è stato). Questi dati drammatici aprono ad una riflessione più
ampia e più profonda.

E’ importante sottolineare che la violenza domestica è spesso caratterizzata da comportamenti che si susseguono e si ripetono ciclicamente in un crescendo sempre più grave che è stato nominato “la spirale della violenza domestica” (Dutton, 2003, Baldry, 2005, Amann Gainotti e Pallini, 2006).

Nel 1983 la psicologa americana Leonore Walker elaborò la “teoria del ciclo della violenza” dopo aver analizzato un centinaio di storie di violenza, raccontate dalle donne che si rivolgevano ai primi gruppi d’aiuto, fondati negli anni Sessanta.

La dinamica della violenza tenderebbe a manifestarsi in una forma ciclica all’interno di quattro fasi:
la crescita della tensione, l’esplosione della violenza (o escalation), la falsa riappacificazione o
“luna di miele” e lo scarico della responsabilità.

Cerchiamo di comprendere insieme ciascuna fase attraverso un quadro più chiaro su come la violenza si sviluppa.

La violenza è un processo che si concretizza, nel corso del tempo in modo graduale, a partire da maltrattamenti verbali o atteggiamenti svalorizzanti che tendenzialmente generano un clima di tensione e di isolamento. Il continuo tentativo dell’uomo di contenere e limitare gli spazi di movimento e di relazione della donna, controllando anche se necessario le relazioni con la propria rete di parenti e amici, nonché incidendo direttamente sulla possibilità di coltivare interessi personali di qualsiasi tipo e di svolgere attività di ogni genere, ha lo scopo di rafforzare la dipendenza sul piano economico e psicologico. 

Ciò produce nella vittima un senso di solitudine e soprattutto di impotenza che la rende incapace di poter modificare la propria situazione, vivendo una condizione di isolamento fisico, relazionale e affettivo. Gli episodi violenti, che si scatenano il più delle volte per motivi banali, aprono alla seconda fase di esplosione della violenza.

Generalmente la violenza fisica è graduale, i primi episodi sono caratterizzati da spintoni, braccia torte per poi arrivare a schiaffi, pugni e calci o uso di oggetti contundenti o armi. In questo stadio per sottolineare il proprio potere l’uomo può agire anche violenza sessuale. Prima di aggredire fisicamente la donna, l’uomo può insultarla, minacciarla o rompere oggetti. Lei non sa quando la violenza cesserà e spesso non si difende, perché sopraggiunge un senso di impotenza, la perdita di qualsiasi controllo e la paura di morire. 

La violenza subita dal partner, l’impressione di essere assolutamente inermi e inadeguate, oltre alle lesioni fisiche, producono gravi conseguenze psichiche nella vittima. Molte donne finiscono in uno stato di choc che può protrarsi per lungo tempo. La fase della falsa riappacificazione chiamata anche “luna di miele” è caratterizzata da scuse e pentimento da parte del partner/aggressore, e rappresenta il periodo in cui il rapporto apparentemente più saldo riprende come se niente fosse accaduto. La donna nella speranza che il pentimento sortisca in un cambiamento strutturale, si trova a minimizzare le tensioni e a nascondere all’esterno e a se stessa il proprio disagio e la pericolosità della situazione.

Successivamente alla riconciliazione si ritorna rapidamente alla fase dell’accumulo di tensione e si innesca nuovamente il ciclo della violenza, nonostante la vittima cerchi di reprimere i suoi bisogni evitando situazioni conflittuali che possano infastidire l’altro. Ad ogni nuovo ciclo gli episodi di violenza diventano più intensi e pericolosi per la donna e la fase della luna di miele si riduce.

L’ultima fase è caratterizzata dalla ricerca delle cause che hanno prodotto la violenza. La colpa viene attribuita dall’uomo a cause esterne, ad esempio il lavoro stressante, la situazione economica difficile e soprattutto alla donna che l’ha provocato o che ha fatto qualcosa che giustifica la sua aggressione.

Conclusioni

L’isolamento e la perdita di autonomia così come della stima di sé e del controllo sulla propria vita, accentuano le difficoltà nel chiedere aiuto. Insinuazioni sul vero valore della persona, sulla liceità dei suoi comportamenti, sulla sua capacità di giudizio e di azione, assaltano progressivamente l’universo intimo e relazionale dell’altro. In questa direzione, la relazione che all’inizio poteva essere piacevolmente esclusiva diventa via via una cella d’isolamento.

Diversi studi, inoltre, dimostrano che la vittima di una relazione violenta spesso ha uno stile di
attaccamento timoroso o ambivalente. Questo vuol dire che può aver sperimentato relazioni precoci in cui il confine tra la cura e l’incuria non è stato chiaro. Se ci si confronta con modelli ambigui rispetto alla disponibilità di fornire amore e rassicurazione, può essere poi più difficile saper distinguere una relazione sana da una che non lo è. Si può sviluppare, in questi casi, una dipendenza affettiva dal proprio partner, che è sostenuta da una mancanza di autostima e autonomia, da angosce profonde legate al fantasma dell’abbandono, dalla difficoltà a distinguere il desiderio dal bisogno, da un profondo senso di vuoto e da una tendenza a idealizzare la funzione della relazione nell’ottenimento della propria felicità.

In più, all’interno di una relazione violenta anche la lettura degli avvenimenti si compromette. La vittima, che è già sottoposta a un processo di continua disconferma del proprio valore, può impiegare molta energia nel tentativo di entrare nell’universo di significazione dell’altro al fine di cercare una giustificazione alla violenza.

Quello che si crea è una situazione di profondo invischiamento e di continua manipolazione del legame, in cui le vittime possono sperimentare, accanto all’aggressione e alla violenza, anche momenti di tenerezza e amore. Non è, dunque, un lavoro semplice quello di guardare la relazione da una prospettiva più ampia e decretarne la disfunzionalità.

E’ evidente che per la donna trovare una rete di servizi adeguati alle sue necessità può aiutarla a non sentirsi sola, a riflettere sui suoi bisogni, ad iniziare un percorso di rielaborazione del proprio vissuto e a prendere delle decisioni rispetto alla sua sicurezza e a quella dei suoi figli. 

Il processo che porta a ciò implica fasi di rifiuto, a volte di negazione, di auto-colpevolizzazione e di sofferenza prima che un riconoscimento pieno della violenza permetta alla donna di maturare una consapevolezza della propria situazione e di chiedere aiuto accettando di affrontare il distacco.

Quello della violenza è un ambito di intervento che, non solo rappresenta una sfida professionale per la sua estrema complessità, ma comporta anche una messa in discussione totale del personale essere donna in questo mondo, in questa società e in questa dimensione culturale.

In questa direzione, all’interno della mia riflessione su tale tema delicato, restano molteplici e diversi interrogativi che desidero condividere con voi lettori. “Perché, nonostante se ne parli tanto, nonostante esistano tanti approcci di intervento a tutela delle donne vittima di violenza intrafamiliare, nonostante i progetti di prevenzione realizzati all’interno delle scuole, continua ad esistere un fenomeno tanto terribile e disumano? Cos’è che agiamo per mantenerlo? Partendo dall’assunto che la violenza è un comportamento appreso culturalmente e socialmente, come possiamo avviare un vero processo di ristrutturazione?”

Credo che per combattere la violenza sulle donne sia necessario un cambiamento considerevole delle coscienze e della concezione culturalmente e socialmente condivisa della donna, che ahimè solo superficialmente si è modificata negli anni.

Dott.ssa Alessandra Antogiovanni, Psicologa

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